19ottanta3
Quella lontana notte della partenza G. se la ricorda come se fosse ieri.
L’odore del diesel della macchina in partenza rimbombava nel naso e nelle orecchie consapevole di doverne farne a meno per un bel po’ di mesi. Partivano così, in quella notte d’estete, la sua infanzia, le sue certezze, vissute per 11 anni; evaporava l’odore della sua casa avvolta in un costante profumo di ammorbidente, di pulito, di profumo verde che si tingeva oltre le finestre semiaperte della cucina dove per ore si affacciava a guardare gocce di brina indebolite sull’erba del prato panoramico oltre i vetri.
Quella notte lo stomaco di G. ebbe un sussulto inaspettato: una forte stretta alla gola si tradusse in un singhiozzo di pianto che le scendeva dagli occhi. Era buio. I suoi genitori e la sorellina che dormiva non se ne accorsero. Era un’emozione a cui si lasciò andare senza dare nell’occhio, ascoltando le voci di mamma e papà che scambiavano parole di futuro sul destino delle figlie.
G. non dormì per le 12 ore consecutive di viaggio. Sprofondava tra la musica del mangianastri sillabando nella testa e nella voce suoni che conosceva molto bene. Il canto la distraeva, ancor più se dentro la melodia osava sognare persino l’amore che lasciava, a quell’età, in fondo al buio di un piccolo angolo del suo cuore. Alternava il canto all’ascolto nascosto dell’umore di sua madre, chiusa nella sua preoccupazione per come sarebbe andato il futuro di tutta la famiglia che piano piano si stava spezzando “per il bene dei figli”.
Il primo anello mancante nel futuro della famiglia sarebbe stata proprio G.
Nulla sarebbe stato più lo stesso, le stanze, il giardino, la scuola, gli amici: G. non avrebbe più sentito nessuna familiarità con tutto ciò che aveva vissuto senza pensieri fino alla fine dell’estate 1983.
La vita di G. si fermò improvvisamente. A 11 anni e 5 mesi. Continuò tuttavia a vivere in quella innocenza emotiva per tanti anni ancora.
In settembre di quello stesso anno G. iniziò la prima media in terra sua, ma pur sempre straniera. I genitori partirono per la Germania e lei si ritrovò in un educandato con le suore. Timida, riservata, “tedesca”. Non faticò tuttavia a rivelare il suo carattere forte e deciso. Osservava molto, esplorava ancor di più gli spazi immensi delle stanze del collegio che emanavano un costante odore di legno massiccio che sembravano avessero ricevuto un corposo strato di cera pochi minuti prima. Nonostante l’enormità delle camere affollate di luce l’atmosfera si traduceva nel cupo rimbombo delle preghiere per il perdono dei peccati del mondo intero. G. soffocava in quel senso di colpa a cui non apparteneva –che responsabilità aveva lei dei peccati degli adulti? -. Non si vestiva di penitenza, no, così come la sua amichetta Franca, che per motivi diversi si era ritrovata a vivere lontana da mamma, papà e fratellino: era stata bocciata, doveva ripetere l’anno, e con quel po’ di disciplina in più dato dalle suore forse sarebbe riuscita a finire almeno i tre anni della scuola media.
G. e Franca correvano per il cortile cementato dell’educandato come pazze al finire delle lezioni. Le corse avrebbero alleviato la mancanza degli affetti a cui erano abituate. Le due ragazzine frequentavano la stessa classe e mai avrebbero potuto avere feeling migliore non solo per i loro segreti, ma anche nei riguardi dei soprannomi che davano prontamente alle suore dell’istituto: suor Pinocchio, suor Vivaggesù, suor Mortisia, suor Superioradelcavolo, suor Malta, suor Caramella, l’unica dolce donna col velo…
Erano tremende ma unite nello stesso destino di quella tristezza temporanea che finiva quando Franca tornava a casa a Casalbordino, e G. andava a casa dei nonni in un paese vicino ogni due settimane.
Durante la settimana dal lunedì al sabato le lezioni finivano alle 13.00. Seguiva il pranzo nel refettorio dell’ educandato con buona pasta, tanto pane, tanta frittata, (G. odiava la frittata e se nessuno voleva favorire del suo pasto si impegnava a tirare con la forchetta, usata come fionda, i pezzetti gialli sulle pareti enormi della enorme stanza che conteneva fino a 60 ragazzini… e l’anno dopo le colpevoli macchie venivano coperte da grandissimi poster di cantanti… la sfida per G. divenne più appetitosa nel colpire di conseguenza gli occhi o la bocca degli allora famosi personaggi della musica), tanta verdura, tanta sostanza. Poi il gioco in cortile con altri ragazzini, non oltre i 14 anni, con la palla, le racchette, con le semplici corse in estate ed in inverno, con il sole, la pioggia e quelle corse con i rintocchi dei loro passi rendevano la vita delle suore oltremodo vivace, unica, rumorosa, piena di finta preoccupazione per dimostrare ai genitori delle ragazze la responsabilità più che altro economica…
Una delle tante preoccupazioni per le suore arrivò quando G. e la sua amichetta Franca scoprirono per caso un’enorme stanza piena di ogni ben di dio: un’infinita dispensa piena di mensole e credenze luccicanti di cibo e dolciumi che avrebbero fatto invidia persino a Babbo Natale.
G. e Franca esploravano un mondo fiabesco dentro una immensa stanza di provviste soprattutto quando scoprirono sotto un telo un grande contenitore di “nutella X 3”, piccole, ma MAI viste prima nell’ ambiente del refettorio durante la loro colazione… il massimo a cui esprimevano contentezza era quando le suore servivano, oltre alla solita fetta di pane e marmellata di nonsochegusto, la rettangolare e magra merendina Kinder, che doveva sfamare le collegiali fino all’ora di pranzo. Alla scoperta del vano gigantesco G. e Franca si guardarono attonite e felici. Iniziarono la loro associazione a delinquere nel programmare esattamente il momento in cui le suore non sarebbero esistite dopo l’ora di pranzo per poter sopprimere a quelle donne golose una ricca porzione di ghiottoneria e di avarizia. Ne avevano bisogno le piccole tremende e anche le povere orfanelle che si trovavano in quell’ambiente oscuro e di finta misericordia per compensare la loro “impercettibile” mancanza d’affetto. Cosi, quando “Suor Cuoca” andava a riposare e la suora di turno prestava attenzione ai bimbi che giocavano in cortile, G. e Franca con la scusa di andare in bagno si travestivano da Robin Hood con il loro verde costume immaginario. Entravano a rubare grosse fette di pane fresco e diversi blister di nutella che nascondevano prima nei pantaloni e poi nelle loro borse di scuola camuffate da voluminosi finti libri scolastici e la sera dopo essersi coricate nel letto, mentre le suore si inginocchiavano per rendere grazie a Dio della giornata appena trascorsa, le collegiali rendevano grazie alla Nutella che rendevano la loro bocca piena di gusto e bontà divina.
L’avventura di G. e Franca continuò per diverso tempo, difficile quantificarlo, il tempo trascorreva lento, noioso e pieno di preghiere, ma il triste giorno arrivò: la porta magica della stanza d’oro venne chiusa a chiave e G. e l’amichetta dovettero sgamare altre avventure burlesche e appetitose per sfamare le orfanelle dalla loro mancanza d’amore che la fede (questa grande sconosciuta) non riusciva a compensare.
Quale punizione più grave potevano frenare G. e Franca? Quale castigo poteva rendere meno vivace la loro frenesia d’avventura? Lo scioglimento della loro associazione a delinquere sottoposta a continui controlli a vista con la relativa documentazione verbale ai loro genitori e parenti. Cosa poteva accadere dopo simile misfatto? Tutt’al più una bella predica e come punizione il rosario recitato in chiesa ogni santo giorno dal lunedì al venerdì in un ambiente glorificato dall’incenso e oppresso dalla fede. Le due piccole amiche continuarono lo stesso ad inventare il mondo d’ affetto e complicità con tutte le loro compagne oltre l’educazione severa scandita dalle suore: il rispetto e l’affetto provato dalle orfanelle nei confronti della società a delinquere (mai sciolta nemmeno con la più caparbia punizione) cresceva nel costruire una curiosità d’ innocenza, con un lauto tifo ai loro gesti teatrali per sfamare semplicemente piccoli bisogni che le spettavano di diritto, perché per causa di forze maggiori non hanno potuto godere di un ambiente familiare normale a causa della palpabile povertà, per esser state abbandonate, o perché i genitori volevano imporre una disciplina ferrea a chi era troppo abbondante nella sua esuberanza. E tutto ciò senza capirne il motivo. Si viveva di sofferenza e basta, alleviata dagli scherzi o dagli atti eroici e buffonevoli di G. e Franca.
Alla fine di tutto questo chi vinse? La bocca della verità che abitava nell’emotività di ogni ragazzina; troppo giovane per capire le contraddizioni e le convinzioni degli adulti, tanto matura ma sfrontata ad affrontare il cammino della sua realtà costruita nella sua giustizia personale.
Oggi G. e Franca spalmano la loro penitenza su una bella fetta di pane, ricordando quanto possa salvare la dolcezza nei più cupi momenti della propria esistenza, masticando ingiustizie divine e digerendo delittuosamente l’invidiosa civiltà umana. A distanza di anni G. non ha mai dimenticato quella notte. Da quelle ore notturne piene di stelle e di luci intermittenti sull’autostrada infinita la sua vita ha iniziato a bussare nell’anima che sarebbe diventata: ribelle, tonda, col senso di onestà che non la avrebbe portata mai a mentire a se stessa, senza scontare assurdi peccati, senza provare sensi di colpa, senza chiudere la porta a chi avrebbe avuto bisogno di ascolto. Senza pentimento. Solo con una piccola mancanza di vita che l’ha messa al mondo (ma nel mentre G. continua ad addolcire la sua strada).
[Grazie Franca]
Rispondi